top of page

La Divina Commedia esoterica (parte 1)

Dante Alighieri (1265-1321) deve probabilmente il suo nome ad uno pseudonimo adottato dal confratello Giovanni Boccaccio, in realtà unico vero tramite certo degli scritti danteschi ai posteri. In effetti per quanto la sua opera abbia segnato forse più di tutte la storia della letteratura italiana, la figura storica di Dante, al di là della suo nota attività reazionaria, è invece ancora avvolta da troppi dubbi e misteri, dato che non si è nemmeno certi per esempio di quale sia stata la sua vera data di nascita o dove fosse la sua casa di famiglia a Firenze (oggi si visita una presunta copia in realtà concepita nel secolo scorso). Ci sono diverse tesi perfino su quale fosse il suo vero cognome, che varia da Alighiero a degli Alighieri, o dal gentilizio de Alagheriis all’anglofono Alaghery. Si è ormai consolidata invece la tesi (sostenuta anche dal figlio Jacopo) secondo cui Dante non sarebbe altro che il diminutivo di Durante. Questo nome, probabilmente non a caso, concorda per altro con quello dell’ignoto fiorentino a cui è attribuito un romanzo allegorico di particolare importanza esoterica, “Fiore”. Questo romanzo non era altro che l’adattamento italiano dell’imponente “Roman de la Rose” che ha una particolare connessione simbolica con la Divina Commedia (vedi post sui Fidelis in Amor).


Dai pochi tratti storici su cui possiamo ricostruire la storia di Dante, si deduce comunque che il passaggio obbligato per capire il “sommo poeta” e cercare di leggere tra le righe delle sue opere, è principalmente la comprensione del suo lato esoterico. La Divina Commedia infatti si presta esplicitamente a ben quattro diversi gradi di lettura: «si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi» [Convito, t. II, cap. 1°]. Il primo livello è senza dubbio quello letterale, mentre il secondo e il terzo, in realtà ben poco nascosti, vengono indicati dai critici come l’ordine filosofico-morale e quello politico. L’allegoria morale nella Divina Commedia si riconduce alla via che l’uomo deve percorrere per superare il peccato passando dall’inferno alle virtù del paradiso ed ha sostanzialmente una forte corrispondenza cristiana, nonostante molteplici riferimenti pagani. L’allegoria politica vede invece la forte contrapposizione tra l’impero e la Chiesa “temporale” secolarizzata, un duro confronto ideologico di cui Dante non è certo spettatore imparziale. Per entrambi questi gradi di lettura l’allegoria si può definire strumentale, cioè atta a dissimulare i reali intendimenti di Dante in una forma che riducesse in primis il serio pericolo di una scomunica pontificia. Questa effettivamente, e stranamente, non arrivò mai, pur avendo posto liberamente papi all’inferno ed eretici in paradiso, ma anche pur essendo stato accusato ancora in vita di inclinazioni esoteriche eretiche e di affinità templare. In tal senso occorre ricordare che a creare maggiore confusione storica è stata la stessa Chiesa, in rapporto pienamente conflittuale sotto papa Bonifacio VIII (1230-1303) e poi artefice di una e vera e propria cristianizzazione con glorificazione postuma dantesca nel XX sec. ad opera dei papi Benedetto XV, Paolo VI e Benedetto XVI. Questa rilettura storica è andata di pari passo con la graduale riconciliazione della Chiesa con la concezione di un “Dio Amore”, termine che ha indotto all’errore terminologico di dare per scontato che Dante fosse un precursore di questa concezione divina, mentre attribuiva a questo Amore un significato simbolico diverso da quello cristiano ortodosso. In particolare, in occasione del VI centenario della morte di Dante (1921), papa Benedetto XV (1854-1922) ha emanato appositamente l’enciclica “In preaeclara summorum” atta a celebrarlo testualmente come uno dei massimi poeti cattolici, sostenendo affermazioni difficilmente condivisibili come o addirittura come <il nostro Poeta durante l’intera sua vita professò in modo esemplare la religione cattolica> o addirittura come <si fece discepolo del principe della Scolastica Tommaso d’Acquino>. Peccato che, per esempio, Dante abbia preso nette distanze dall’illustre santo abbracciando teorie pagane ed eretiche come quella delle ombre dei defunti o soprattutto ponendo nel paradiso l’averroista Sigieri da Brabante, riferimento culturale templare e nemesi teologica proprio di San Tommaso d’Acquino.


Ritornando ai gradi di lettura, arriviamo dunque al più elevato dei “sensi”, il più impescrutabile ed aulico, quello che Dante stesso definisce “anagogico” (in greco “conoscere a fondo”). Evidentemente questo ultimo grado di lettura è di carattere simbolico-esoterico: <O voi che avete gl’intelletti sani, Mirate la dottrina che s’asconde Sotto il velame detti versi strani!> [Inferno, IX, 61 63]. C’è quindi una “dottrina”, o una precisa ideologia, nascosta all’interno di quest’opera e senza dubbio di origine esoterica visto il preciso simbolismo che si può trovare in tutta l’opera e gli innumerevoli parallelismi con il sapere esoterico dell’epoca, rituali inclusi. In questo ultimo grado di lettura l’allegoria non è quindi più strumentale come per le allegorie inferiori, ma necessaria in quanto il simbolismo è “il” linguaggio proprio dell’esoterismo.


Come detto nel post sui Fidelis in Amor, i primi a segnalare questa chiave di lettura dantesca furono storicamente Rossetti e Aroux, che non avendo però sufficienti erudimenti in campo esoterico non riuscirono ad andare oltre ad ipotesi tipo che Dante fosse un “albigese” o un “templare”, o più genericamente un “pagano”, pur non cogliendone forse il vero significato e ignorando quindi che l’esoterismo appartiene ad un piano differente e trasversale rispetto alle religioni exoteriche (o essoteriche) e alla cultura tradizionale in genere, concetto approfondito particolarmente da René Guénon, per cui tutte queste definizioni attribuite a Dante non sono errate se viste nel quadro complessivo, ma lo sono se considerate singolarmente. Il particolare il punto di vista di Aroux era quello di un politico e letterato clericale che considerava Dante esplicitamente eretico, cioè che professasse teorie estranee o condannate dalla Chiesa ortodossa proprio per il loro carattere esoterico, da cui il suo famoso testo “Dante hérétique” del 1854. Anche il loro illustre contemporaneo Ugo Foscolo (1778-1827), che nel suo “Dei sepolcri” aveva apostrofato Dante con il noto epiteto di “ghibellin fuggiasco” e che era quindi consapevole della sua natura anticlericale, era giunto a riconoscere la matrice pagana del pensiero dantesco.


In prima analisi in realtà non occorrerebbe nemmeno essere esperti di esoterismo per riconoscere nell’opera dantesca innumerevoli riferimenti culturali extra-cristiani. Si prenda in considerazione per esempio la suddivisione del suo universo allegorico in tre mondi o l’aspetto della morte e discesa agli inferi di un comune mortale, così come la conseguente resurrezione e l’ascensione ai cieli, poichè sono tutti aspetti che hanno collegamenti alle culture antiche: dalla Grande Opera ermetica, all’islamico “viaggio notturno” di Mohammed del “Kitab el isra”, Sura 17 del Corano, o per esempio la discesa agli inferi di molteplici personaggi della mitologia greco-romana come Orfeo, Bacco, Ercole, Teseo, Polluce, ma anche l’Ulisse di Omero, la Psiche di Apuleio, o Er di Platone, per finire con l’Enea di Virgilio citato testualmente nella Divina Commedia. Allo stesso modo per esempio il ramo colto nella selva oscura richiama il ramo d’oro sempre di Enea, ma anche quello degli Eleusi, o la palma cristiana che dà inizio alla settimana santa che termina con la resurrezione della pasqua, o ancora l’acacia della Massoneria moderna, pegno di resurrezione e di immortalità.


Il già citato “Kitab el isra” ("Libro del viaggio notturno") e il “Futuhat el Mekkiyah” ("Rivelazioni della Mecca") di Mohyiddin ibn Arabi sono tra l’altro i testi che presentano le maggiori analogie simboliche con la Divina Commedia e la precedono cronologicamente di poco meno di un secolo, motivo per cui prima lo storico e arabista spagnolo Don Miguel Asin Palacios (1871-1944) nel suo “La escatología musulmana en la Divina Comedia” del 1919 e poi Antoine Cabaton in “La divine comédie et l’Islam”, hanno ritenuto che possano essere stati di ispirazione diretta per Dante. Guenon aggiunge che Mohyiddin ibn Arabi <nell’esoterismo islamico, è chiamato Esh Sheikh el akbar, vale a dire il più grande dei Maestri spirituali, il Maestro per eccellenza, che la sua dottrina è d’essenza puramente metafisica, e che parecchi dei principali Ordini iniziatici dell’Islam, fra quelli che sono i più elevati ed i più chiusi nello stesso tempo, procedono direttamente da lui>. Tra gli altri autori islamici associati a vario titolo all’opera dantesca possiamo ricordare Omar ibn El-Farid, Omar El-Khayyam, Abu-l-Alà El-Maari e soprattutto Risàlatul-Ghufràn.


Uno dei maggiori indiziati per aver svolto il ruolo di ponte culturale tra Dante e l’islam è invece il suo maestro Brunetto Latini. Bisogna però notare che Dante prende ufficialmente distanze dall’islam tradizionale (un po’ come ha fatto con la Chiesa Cristiana più ortodossa) condannando duramente Maometto nella Divina Commedia, dove lo relega nell’inferno nell’ottavo cerchio dei “seminatori di discordie” con suo cugino Ali ibn Abi Talib (primo Imam dell’Islam): [Canto XXVIII]. Questo in linea forse con la credenza medievale secondo cui Maometto sarebbe stato un vescovo cristiano che avrebbe fondato una sua religione scismatica non riuscendo a raggiungere il soglio pontificio (questione ripresa per esempio da Emile Dermenghem ne “La vie de Mohamet” del 1929). Al contrario Dante rende invece onore ad altre personalità del mondo islamico come il “Saladino” (Salāh al-Dīn al-Ayyūbi sultano d’Egitto) e soprattutto il filosofo arabo del XII sec. Averroè (Abū l-Walīd Muhammad ibn Ahmad Muhammad ibn Rushd) che assumerà un posto d’onore nella cultura rosicruciana finendo per diventare l’emblema del superamento della contrapposizione tra cultura orientale e occidentale.


E’ da escludere invece l’ipotizzata influenza su Dante dell’opera dell’ebreo Immanuel ben Salomon ben Jekuthiel, dato che è in realtà postuma alla Divina Commedia, anche se non è da escludere la generica influenza della cultura ebraica su Dante, dato che sia la tradizione dei Fidelis in Amor che la templare, ne sono state sicuramente un tramite.


Ma torniamo alle interpretazioni di Aroux ed in particolare alla concezione della palingenesi iniziatica insita nella Divina Commedia secondo la sua interpretazione: <L’Inferno rappresenta il mondo profano, il Purgatorio comprende le prove iniziatiche, e il Cielo è il soggiorno dei Perfetti, nei quali si trovano riuniti e portati al loro zenith l’intelligenza e l’amore. (...) Secondo Dante, l’ottavo cielo del Paradiso, il cielo stellato (o delle stelle fisse) è il cielo dei Rosa Croce: i Perfetti vi sono vestiti di bianco; essi vi espongono un simbolismo analogo a quello dei Cavalieri di Heredom>, alludendo al “convento delle bianche stole” citato nel XXX canto del Paradiso. Questi stessi personaggi vengono interpretati senza indugio da René Guénon come cavalieri templari, secondo lui citati anche nei versi: <in forma dunque di candida rosa Mi mostrava la milizia santa Che nel suo sangue Cristo fece sposa>. Il perfezionamento in Dio è la conquista suprema anche della gnosi templare, raggiungibile solo dopo il riconoscimento delle nostre colpe (passaggio per l’Inferno) e dalla purificazione conseguente alla comprensione di come possiamo redimerci da queste (passaggio per il Purgatorio).


Per Arturo Reghini (stretto collaboratore del neo-pitagorico Amedeo Rocco Armentano di Scalea) il parallelismo più pregnante sarebbe invece quello con i misteri orfici, pitagorici, eleusini e isiaci, riti di iniziazione con pratiche catartiche, cerimonie simboliche ed estasi per raggiungere la conoscenza vera dei principi della vita, la beatitudine e l’immortalità privilegiata nei campi Elisii: <Il soggetto della Commedia è l'uomo, o meglio la rigenerazione dell'uomo, la sua metamorfosi in angelica farfalla, la Psiche di Apuleio. È dunque il medesimo soggetto dei misteri. Non le sole qualità morali cambiano; Dante si purifica di grado in grado, passa per crisi e coscienze varie e numerose, cade come corpo morto, sviene, rinviene, si addormenta, si ravviva nell'Eunoè, la sua mente esce di se stessa, si illuia, si india, si interna, s'infutura, s'insempra, passa al divino dall'umano, all'eterno dal tempo, e finalmente dislega l'anima sua da ogni nube di mortalità. Questo non è un perfezionamento morale, è una vera palingenesi di tutto l'essere che si attua nel simbolico viaggio. Il velame asconde non soltanto delle disquisizioni morali sopra i peccati e le virtù, ma l'esposizione di mutamenti interiori nella coscienza del pellegrino. I due fiumi del paradiso terrestre sono un evidente imprestito ai misteri orfico-pitagorici> [da “L’allegoria esoterica in Dante” di Arturo Reghini]. In effetti esplicito riferimento alle fonti orfiche della salvezza (Eunoè, termine meno famigliare per Mnemosine) o dell’oblio (Lete) si trovano nel Purgatorio nel canto XXVIII 121-138.


Tornando nuovamente ad Aroux <nei canti XXIV e XXV del Paradiso, si ritrova il triplice bacio del Principe Rosa Croce, il pellicano, le tuniche bianche, le stesse di quelle dei vegliardi dell’Apocalisse, i bastoni di cera per sigillare, le tre virtù teologali dei Capitoli massonici (Fede, Speranza e Carità); imperocchè il fiore simbolico di Rosa Croce (la Rosa candida dei canti XXX e XXXI) è stato adottato dalla Chiesa di Roma come la figura della Madre del Salvatore (Rosa Mystica delle litanie), e da quella di Tolosa (dei catari) come il tipo misterioso dell’assemblea generale dei Fedeli d’Amore. Queste metafore erano già usate dai Paoliciani, predecessori dei Catari al X° e XI° secolo>. Il settenario delle virtù, formato dal ternario superiore delle teologali (che riguardano Dio) e dal quaternario inferiore delle cardinali (che riguardano l’uomo), è una base simbolica pressoché costante per l’esoterismo, tant’è che il loro ruolo iniziatico è perfettamente conservato per esempio nel 17° (Cavaliere d’Oriente e d’Occidente) e nel 18° grado (Principe di Rosa Croce) della Massoneria scozzese. Guénon aggiunge che <nei capitoli di Rosa Croce (18° grado scozzese), i nomi delle tre virtù teologali sono associati rispettivamente ai tre termini della divisa "Libertà, Eguaglianza, Fratellanza"; si potrebbe anche avvicinarli a ciò che si chiama «i tre principali pilastri del Tempio nei gradi simbolici: «Saggezza, Forza, Bellezza». A queste tre stesse virtù, Dante fa corrispondere san Pietro, san Giacomo e san Giovanni, i tre apostoli che assistettero alla Trasfigurazione>. Da notare anche che le virtù sono suddivise esattamente come le sette arti liberali, di cui sopra, che allo stesso modo rappresentano livelli iniziatici e che sul gradino più alto della “scala misteriosa” di Kadosch c’è proprio la “Fede Santa”.


Notevole il fatto che all’apice della sua “palingenesi” (dal greco “rinascita”) iniziatica, sempre nell’ottavo cielo del Paradiso, Dante subisca una sorta di esame sulle tre virtù teologali per accedere alle anime trionfanti: viene interrogato da San Pietro sulla Fede, da San Giacomo Maggiore sulla Speranza e da San Giovanni Evangelista sulla Carità. Questi grandi santi cristiani diventano il simbolo stesso di queste virtù alle quali sono associati e questo simbolismo è rimasto tutt’ora inalterato nella massoneria contemporanea che apparentemente sembra avere una particolare venerazione per loro, mentre in realtà vengono intesi appunto solo come simboli.


Dalle parole dello stesso Dante: <A vedere quello che per terzo cielo s’intende... dico che per cielo intendo la scienza e per cieli le scienze> [Convito, t. II, cap. XIV]. Ai tempi di Dante infatti era comune il riferimento al concetto fondamentale delle “sette arti liberali” in cui era suddivisa l’intera conoscenza: <O uomini, che vedere non potete la sentenza di questa Canzone, non la rifiutate però; ma ponete mente alla sua bellezza, che è grande, sì per la costruzione, la quale si pertiene alli grammatici; sì per l’ordine del sermone, che si pertiene alli rettorici; sì per lo numero delle sue parti, che si pertiene alli musici>. Queste arti avevano anche una precisa simbologia in termini esoterici-astrologici: alla Luna corrispondeva la Grammatica, a Mercurio la Dialettica, a Venere la Retorica, a Marte la Musica, a Giove la Geometria, a Saturno l’Astronomia, al Sole l’Aritmetica o la Ragione illuminata. Corrisponderebbero ancora ai primi sette cieli del paradiso dantesco e sono le stesse che ritroviamo ancora nella Scala dei Kadosch, al 30° grado della Massoneria scozzese, solo con ordine leggermente diverso e la sostituzione tra Dialettica e Logica. Non si possono dunque intendere queste arti solo dal loro punto di vista exoterico, cioè come venivano insegnate nelle scuole, ma anche in questo caso bisogna intendervi un significato esoterico più profondo, tant’è che le arti medievali erano cariche di questo tipo di simbologie inspiegabili nel senso comune scolastico, come per esempio nelle cattedrali gotiche così affini al linguaggio dell’arte muratoria della Massoneria speculativa.


<Le espressioni «terzo cielo» (cielo di Venere), «terzo loco», (da paragonare con il termine massonico «terza camera» o «camera di mezzo») e «terzo grado», indicano il terzo grado della gerarchia, nel quale si riceveva il saluto (o la salute); questo rito si svolgeva sembra, all’epoca di Ognissanti, così come le iniziazioni si svolgevano a Pasqua, durante la quale si svolge l’azione della Divina Commedia> [da “L’esoterismo cristiano” di René Guénon]. I “cieli” del Paradiso dantesco quindi non sono altro che “gerarchie spirituali”, gradi di iniziazione ai quali si è ammessi, in accordo con l’antica simbologia esoterica, dopo essere entrati nella caverna iniziatica (Inferno) per uscirne rinnovati e rinati dal monte superiore (Purgatorio).


by ActualProof (appuntidiviaggio)


bottom of page