Cours d’Amour e Fidelis in Amor
Nel XIII secolo sono comparse, prevalentemente nel sud della Francia, numerose testimonianze di confraternite misteriche costituite da illustri intellettuali, poeti, artisti o mistici che condividevano una forte formazione esoterica. Tra questi vi erano senz’altro i famosi poeti francesi in lingua d’oc, i “troubadour”, riuniti nelle cosiddette “cours d’amour” (“corti d’amore”) provenzali. Proprio la regione francese della Languedoc, e proprio in quel periodo storico, stava subendo i drammatici effetti della dura guerra a sfondo religioso tra il nord e sud della Francia, in cui il pretesto era la contrapposizione tra il cristianesimo ortodosso e quello cataro, scontro fratricida che si protrasse ben oltre la formale pace di Parigi del 1229. Gli albigesi (nome spesso usato come sinonimo di cataro) erano gli abitanti della cittadina di Albi, una delle maggiori roccaforti catare con Tolosa e Carcassonne, da cui ha preso il nome l’ultima crociata di questa guerra, guidata da re Filippo Augusto di Francia con l’avvallo di papa Innocenzo III. Vi erano quindi motivazioni politiche oltre che culturali per il fatto che tutta la poesia trobadorica era anti-ecclesiastica e anti-papale, aspetti che ritroveremo non a caso anche in Dante. Dopo questi eventi storici la cosiddetta eresia catara acquisì inevitabilmente connotazioni molto più settarie per cercare di eludere con la clandestinità la repressione e l’organizzazione delle corti d’amore sarebbe servita proprio a questa copertura.
Considerare però il solo catarismo come unica influenza culturale di questi settari potrebbe essere errato, anche se questo, discendente dal culto dei bogomili (che a loro volta attingevano dalle tradizioni mediorientali manichea e paulicianianea), potrebbe comunque da solo giustificare la determinante permeabilità con l’esoterismo orientale che ritroviamo nelle corti d’amore. Per completare il quadro occorre comunque considerare anche l’apporto culturale dovuto alla contiguità della Provenza con la vicina spagna musulmana (troviamo infatti i canti per la Sofia, la Shekinah arabe nelle poesie trobadoriche) e non ultimo del potente templarismo, che era nato giusto il secolo precedente poco più a nord della Languedoc e da lì s’era ormai diffuso in tutta la Francia trovando terreno particolarmente fertile nel catarismo.
Le influenze culturali della Languedoc arrivarono successivamente anche nel nord Italia e confluirono in particolare nel movimento stilnovista affermatosi nella seconda metà del XIII sec., in cui ritroviamo un analogo uso del simbolismo allegorico esoterico tipico dei romanzi in lingua d’oc. Nel sud d’Italia, invece, la poesia d’amore allegorico-esoterica, in forma di devozione alla sapienza gnostica, era già di casa nella corte di re Federico II, fin dalla prima metà del XIII sec e probabilmente con sviluppo diretto della cultura arabo-islamica più che per le correnti della Languedoc francese. Tra i movimenti legati allo stilnovismo ce n’è stato uno in particolare, che per la sua natura puramente esoterica non dovrebbe aver mai assunto una forma societaria, ma che è riuscito a caratterizzare fortemente la letteratura dell’epoca avendo come suoi membri alcuni dei più illustri letterati italiani. Ci sono discordanze sul nome adottato da questa confraternita che più comunemente viene citata come dei “Fedeli d’Amore”, mentre probabilmente sarebbe più corretto “Fidelis in Amor”, o ancora “Fidei Sanctae Kadosch” o più semplicemente come la “Fede Santa”, nome che richiama direttamente nientemeno che al Terz’Ordine di filiazione templare, che, passando per la Fraternità della Rosa-Croce, verrà successivamente assorbito negli alti gradi della massoneria. I membri dei Fidelis in Amor sono anche detti cavalieri Kadosch, parola che nell’ebraico antico significa “sacro” o “santificato”, che in qualche modo può trovare una corrispondenza nell’attuale 30° grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato, anche se il riferimento è forzato poiché all’epoca non si poteva ancora parlare di massoneria, per di più per come è concepita oggi.
Tra i primi sostenitori della tesi settaria delle corti d’amore, nella seconda metà dell’800, ci furono Gabriele Rossetti (1783-1854) e il suo “discepolo” Eugène Aroux (1793-1859). Quest’ultimo considerava la setta di questi “serventi d’amore” come gruppi di protestanti patrocinati da nobili signori o dame e presiedute da un prefetto delle chiese albigesi. Partendo da questi studi si generò successivamente un vero filone di intellettuali che proseguirono la reinterpretazione dei testi di questi filonei letterari, dal trobadorismo fino a Dante Alighieri, con le chiavi interpretative di Rossetti e Aroux. Tra questi si sono distinti il matematico, filosofo ed esoterista italiano (anti-clericale) Arturo Reghini (1878-1946), con “L’allegoria esoterica in Dante” del 1921, il critico letterario e professore universitario Luigi Valli (1878-1931) con vari testi, tra cui “L’allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli” del 1922 e “Il linguaggio segreto di Dante e dei “Fedeli d’Amore” del 1928. Infine l’eminente esoterista francese René Guénon (1886-1951) autore di diversi saggi sull’argomento, ma in particolare con “L’esoterismo di Dante” del 1925, l’unico che forse sia riuscito ad inserire queste correnti in una antichissima catena iniziatica che storicamente parte dall’estremo oriente e attraversa tutte le maggiori culture mediorientali prima e occidentali dopo.
Come detto diversi poeti e illustri letterati del Dolce Stil Novo, capitanati da Guido Cavalcanti, sono collegati (non si sa però con certezza a che titolo) alla tradizione dei Fidelis in Amor. Tra questi ci sarebbero Lapo Gianni, Cino da Pistoia, Guido Guinizzelli, ma soprattutto Dante, Boccaccio e Petrarca, tutti accomunati dall’uso dello stesso linguaggio simbolico. Alfonso Ridolfi nel suo “Studi sui Fedeli d'Amore - I: Le Corti d'Amore in Francia ed i loro riflessi in Italia”, indica altri membri di questa confraternita nella Francia settentrionale come Jacques de Baisieux, autore di un poema sui "Fiefs d’Amour" (feudi d'amore). Anche i francesi Guillaume de Lorris e Jean de Meung, autori del "Roman de la Rose" (1237-1280), sono stati additati da Ridolfi come affiliati ai Fidelis in Amor. Il Roman de la Rose è stato un vero e proprio best seller per la sua epoca, dato che è uno dei testi più ricopiati di tutto il Medioevo, scritto di peculiare importanza per la cultura rosicruciana e per tutto l’esoterismo posteriore e che presenta tutto il simbolismo allegorico che ritroviamo anche nei Fidelis in Amor, al punto che Eliphas Levi lo considera opera complementare alla stessa Divina Commedia. Conoscendo però la precedente origine francese dello stilnovismo è in realtà difficile credere che gente come Baisieux, Guillaume o de Meung fossero stati ispirati principalmente da questo movimento italiano, più che dallo stesso trobadorismo francese. In ogni caso queste due correnti letterarie possono essere considerate in definitiva come appartenenti ad un unico e peculiare filone culturale esoterico di filiazione templare-cataro-islamica.
Gli scritti dei Fidelis in Amor, come dei trobadoristi, dovevano essere necessariamente in forma poetica, poiché quella era la lingua divina, quella in cui si esprimevano gli antichi oracoli, perché ancora nella lingua latina il vates accomunava i significati di poeta, divinatore e profeta, come i carmina di versi poetici, ma anche ammaliamenti o incantamenti (equivalenti al Karma sanscrito, inteso come atto rituale). Emblematico a riguardo il De Vulgari Eloquentia dello stesso Dante Alighieri, inteso dalla cultura scolastica e filologicamente come un semplice trattato sull’uso dell’idioma italiano, opera in realtà piena di misteri sia per Rossetti, Aroux, che Gaetano Scarlata e che in realtà si riferisce alla lingua segreta stilnovista. L’usanza di mascherare una simile opera iniziatica da trattato di grammatica non è così inusuale ed è propria sempre dell’esoterismo islamico. <In effetti, quelli che Dante chiama poeti volgari sono coloro i cui scritti avevano, come lui dice, verace intendimento, vale a dire contenevano un senso nascosto, in conformità col simbolismo dei «Fedeli d’Amore», infatti egli li contrappone ai litterali (e non litterati, come talvolta è stato detto in modo inesatto), cioè a coloro che scrivevano solamente in senso letterale. I primi sono, per lui, i veri poeti, ed egli li chiama anche trilingues doctores, cosa che, da un punto di vista esteriore, si può intendere col fatto che tale poesia esisteva nelle tre lingue, italiana, provenzale (e non «francese», come dice erroneamente Scarlata) e spagnola, ma che in realtà significa (nessun poeta ha mai scritto infatti in tutte e tre le lingue) che essa doveva essere interpretata secondo un triplice senso [Senza dubbio, occorre intendere che si tratta di tre significati superiori a quello letterale, di modo che, con quest’ultimo, si avrebbero i quattro significati di cui Dante parla nel Convito, così come abbiamo indicato all’inizio del nostro studio su L’Esoterismo di Dante]; e Dante, a proposito di questi trilingues doctores dice che «maxime conveniunt in hoc vocabulo quod est Amor», che è un’allusione abbastanza evidente alla dottrina dei «Fedeli d’Amore» […] è vero che per Dante questa «Lingua della rivelazione», sembra sia stata l’ebraico, ma una tale affermazione non dev’essere presa alla lettera, in quanto che si può affermare la stessa cosa per tutte le lingue che hanno un carattere «sacro», vale a dire per tutte le lingue nelle quali si esprimono le diverse forme tradizionali regolari. Secondo Dante, la lingua parlata dal primo uomo, e creata direttamente da Dio, fu mantenuta dai suoi discendenti fino all’edificazione della torre di Babele; in seguito, «hanc forman locutionis hereditati sunt filii Heber...; hiis solis post confusionem remansi»; ma questi «figli di Heber», piuttosto che un popolo determinato, non sono tutti coloro che hanno conservato la tradizione? Il nome di «Israele» non è stato spesso impiegato per indicare, anche, l’insieme degli iniziati, qualunque fosse la loro origine etnica? E costoro, che di fatto costituiscono realmente «il popolo eletto», non possiedono la lingua universale che permette a tutti loro di comprendersi, vale a dire, non possiedono la conoscenza della tradizione unica che è celata sotto tutte le forme particolari? D’altronde, se Dante avesse pensato che si trattava realmente della lingua ebraica, non avrebbe potuto dire che la Chiesa (indicata col nome enigmatico di Petramala) crede di parlare la lingua di Adamo, perché essa non parla l’ebraico, ma il latino, per il quale non sembra che qualcuno abbia mai rivendicato la qualità di lingua originaria; ma, se con ciò che dice Dante si intende che la Chiesa crede di insegnare la vera dottrina della rivelazione, ecco che tutto diventa perfettamente comprensibile. Inoltre, anche ammettendo che i primi Cristiani, che possedevano questa vera dottrina, abbiano effettivamente parlato l’ebraico (cosa che sarebbe storicamente inesatta, perché l’aramaico non è l’ebraico, più di quanto l’italiano non sia il latino), i «Fedeli d’Amore», che si consideravano i loro continuatori, non hanno mai preteso di riprendere questa lingua per opporla al latino, come sarebbe stato logico che facessero se ci si volesse attenere alla interpretazione letterale. […] Del pari, allorché Dante contrappone una città o una regione ad un’altra, non si tratta semplicemente di una opposizione linguistica; o quando cita certi nomi come: Petramala, Papienses, Aquilegienses, in queste sue scelte (anche a voler trascurare la considerazione di un simbolismo geografico propriamente detto) vi sono delle intenzioni fin troppo trasparenti, come già aveva fatto notare Rossetti; e naturalmente, per comprendere il vero senso di questo o di quel termine, apparentemente insignificante, occorre spesso rifarsi alla terminologia convenzionale dei «Fedeli d’Amore». Scarlata fa osservare, molto giustamente, che quasi sempre sono gli esempi che danno la chiave del contesto (compresi quegli esempi che sembrano avere solo un valore puramente retorico o grammaticale); in effetti, si trattava di un eccellente mezzo per distogliere l’attenzione dei «profani», i quali potevano solo scorgervi delle frasi qualsiasi e senza importanza; si potrebbe dire che questi esempi giuocano qui un ruolo paragonabile a quello dei «miti» nei dialoghi di Platone, e basta considerare a cosa, i «critici» universitari, hanno ridotto quest’ultimi, per comprendere l’efficacia del procedimento, che consiste nel mettere «fuori causa», se così si può dire, proprio ciò che è invece più importante> [da “L’esoterismo cristiano” di René Guénon].
Un’altro degli aspetti che accomuna tutti i Fidelis in Amor è che nei loro testi ci sono sempre diversi gradi di lettura, con contraddizioni intenzionali, dettagli apparentemente inutili, ma atti a sviare i profani, e simboli dissimulati in motivi ornamentali. Il primo simbolismo che appare comune a tutti questi poeti è sicuramente quello attribuito alle loro donne ideali, che in realtà non sono persone materiali né fittizie, ma solo simboli. Vi è infatti una storica identificazione neoplatonica e gnostica della Mistica Sapienza con il simbolo allegorico della donna, solo in quanto principio femminile, che poi diviene Amore per gli scolastici (tradizione che giunge perfino ad un moderno come Giovanni Pascoli). È ancora una volta un simbolismo che ha origini orientali e precisamente trova un suo precedente nella poesia mistica dei sufi persiani. Le prime donne allegoriche italiane, come detto, nascono nella scuola di Palermo della corte di re Federico II ed è notevole che queste si chiamino quasi sempre Rosa.
I Fidelis in Amor per esempio parlano spesso nei loro poemi anche della “fontana d’insegnamento”, che è sempre iniziatica e rappresentata come posta ai piedi di un albero, generalmente un pino, una faggio o un lauro ovviamente come “Albero della Vita”. Un altro esempio esplicito lo si può trovare nei “Documenti d’Amore” di Francesco da Barberino, dove l’Amore stesso è rappresentato con i piedi di falco, l’uccello dell’Horus egizio il cui simbolismo è in stretta relazione con quello del cuore del mondo. Nello stesso poema compare un simbolo in cui dodici personaggi sono disposti simmetricamente in sei coppie (che rappresentano gradi iniziatici) convergenti verso un personaggio centrale con due teste di sessi opposti e con in mano la rosa simbolica (che rappresenta il settimo grado caratterizzato dalla ricostruzione dell’Androgine ermetico, quindi dalla restaurazione dello stato primordiale). Questa figura è equivalente al Rebis ermetico che troviamo per esempio nel “Rosarium Philosophorum” dell’alchimista Arnaldo da Villanova a lui contemporaneo, con la sola differenza di inversione di lato maschile e femminile (come avviene anche nel tantrismo indù).
Ovviamente sin dalla scelta del nome di Fidelis in Amor è facile capire quale centralità avesse per loro il concetto di Amore, ma anche dalla fondamentale dicotomia (anche fonetica) Amore-Morte. <Esso è un rapporto duplice, poiché la parola «Morte» ha essa stessa un duplice significato. Per un verso, fra l’«Amore» e la «Morte» vi è un accostamento e quasi un’associazione, la seconda è intesa allora come «morte iniziatica»; e questo accostamento sembra si sia mantenuto in seno a quella corrente da cui sono nate, alla fine del Medioevo, le raffigurazioni della «danza macabra»; per l’altro, vi è anche un’antitesi la quale si può spiegare, in parte, attraverso la stessa costituzione dei due termini: in entrambi è presente la radice mor, ma in a-mor essa è preceduta dalla a privativa, come nel sanscrito a-mara, a-mrita, di modo che «Amore» può interpretarsi come una sorta di equivalente geroglifico di «immortalità». Seguendo allora lo stesso senso, i «morti», in generale, possono essere considerati come i profani, mentre i «viventi», o coloro che hanno ottenuto l’«immortalità», sono gli iniziati; e qui è il caso di ricordare che l’espressione «Terra dei Viventi» è sinonimo di «Terra Santa» o «Terra dei Santi», «Terra Pura», ecc., mentre la stessa opposizione da noi indicata equivale, sotto questo profilo, a quella fra l’Inferno, che è il mondo profano, ed i Cieli, che sono i gradi della gerarchia iniziatica> [da “L’esoterismo cristiano” di René Guénon].
Per lo stesso motivo è di cruciale importanza per i Fidelis in Amor il simbolismo del cuore, che è relativo all’intelletto e non al sentimento o addirittura la sola passione come modernamente inteso. Il loro “cor gentile” è un cuore purificato da ogni esteriorità, quindi esotericamente il solo atto a ricevere l’illuminazione interiore (per altro in stretta analogia con dottrine antiche orientali come il Taoismo).
Ancora Guénon svela <il nome segreto che i «Fedeli d’Amore» davano a Dio: Francesco da Barberino, nel suo Tracta-tus Amoris, si è fatto rappresentare in atto di adorare la lettera “I”; nella Divina Commedia, Adamo dice che il primo nome di Dio fu I [Paradiso, XXVI, 133] ed El fu il nome successivo. Questa lettera “I”, che Dante chiama la «nona figura» secondo il posto da essa occupato nell’alfabeto latino (e si sa quale importanza simbolica avesse per lui il numero 9), non è altro, evidentemente, che lo iod, benché questo sia la decima lettera dell’alfabeto ebraico; infatti lo iod, oltre ad essere la prima lettera del Tetragramma, costituisce di per sé un nome divino, sia se isolato che se ripetuto tre volte. […] essa designa propriamente l’«Unità divina» (fra l’altro, ecco perché è il primo nome di Dio: l’unità dell’essenza precede necessariamente la molteplicità degli attributi). In effetti, non solo essa è l’equivalente dello iod ebraico, geroglifico del Principio, ma lo iod è esso stesso principio di tutte le altre lettere dell’alfabeto, ed il suo valore numerico, 10, riconduce all’unità (è l’unità sviluppata nel quaternario: 1+2+3+4 = 10, o il punto centrale che produce, con la sua espansione, il cerchio della manifestazione universale); non solo la stessa lettera I rappresenta l’unità nella numerazione latina, in ragione della sua forma di linea retta, che è la più semplice di tutte le forme geometriche (essendo, il punto, «senza forma»), ma, per di più, nella lingua cinese, la parola i significa «unità» e Tai-i è la «Grande Unità», che è rappresentata simbolicamente come residente nella stella polare; e ciò è ulteriormente ricco di significato poiché, ritor-nando alla lettera I degli alfabeti occidentali, ci si accorge che, essendo una retta verticale, essa è, per ciò stesso, idonea a simboleggiare l’«Asse del Mondo», di cui si conosce bene l’importanza in tutte le dottrine tradizionali [Nella Massoneria operativa, il filo a piombo, figura dello «Asse del Mondo», è sospeso alla stella polare o alla lettera G, che in questo caso ne occupa il posto, e che è a sua volta, come abbiamo già detto, un sostituto dello iod ebraico. - Cfr. La Grande Triade, cap. XXV]; il fatto, poi, che questa lettera sia indicata come il «primo nome di Dio», ci ricorda anche l’anteriorità del simbolismo «polare» rispetto al simbolismo «solare»>.
La dottrina dei Fidelis in Amor in definitiva non è fondamentalmente anti-cristiana anche se prevalentemente ricca di elementi extra-cristiani. Il punto di vista più estremo in questo senso è ancora di René Guénon, che sostiene che questa dottrina sia da considerarsi addirittura “rigorosamente cattolica”, valutazione figlia del suo approccio “sintetista”, giustificabile comunque solo nell’ottica del cosiddetto esoterismo cristiano. Non vi è però alcun dubbio che il rapporto di questi esoteristi con la cristianità ortodossa era apertamente conflittuale. I Fidelis in Amor accusavano principalmente la Chiesa di Roma di essersi degenerata a Ecclesia Carnalis con la donazione di Costantino, perdendo per sempre l’attributo di Ecclesia Spiritualis, quindi effettivamente in linea con l’esoterismo cristiano. Questa era una concezione simile anche a quella di Gioacchino da Fiore, che però era rispettato sia dal cristianesimo ortodosso che da quello esoterico, o dei francescani spirituali, correnti che molto probabilmente hanno influenzato Dante, parimenti alle influenze islamiche, attraverso la mediazione del suo mentore Brunetto Latini. In definitiva la visione esoterica dei Fidelis in Amor può essere considerata trasversale rispetto a tutte le tradizioni esoteriche di origine mediorientale, inclusa però anche quella cristiana. In una delle prima novelle del Decamerone di Boccaccio, Melchisedec, cioè il rappresentante della tradizione unica nascosta dietro le forme esteriori, afferma che <nessuno sa quale sia la vera fede> tra Giudaismo, Cristianesimo e Islamismo, concezione che implica per altro la conoscenza dell’antico concetto di centro del mondo. Questa vera fede è ovviamente per loro solo la Fede Santa dei Fidelis in Amor, di cui agli alti membri, come Dante, veniva riconosciuto l’attributo di Kadosch (equivalente ebraico di Santo o Consacrato) che è ancora oggi conservato negli alti gradi massonici.
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